Scorrendo tra i feed dei vari social, a volte inciampo in fotografie di persone che si divertono insieme, persone che conosco da quando ero adolescente e che dopo anni ancora passano tempo insieme.
Amici, credo che si dica.
Alzo il capo, mi guardo intorno e mi chiedo quando ho lasciato andare tutti.
Da ragazzo, tempo fa, una volta scrissi: ‘Avrei voglia di maledire tutti e tutti i giorni in cui li ho incontrati; rispedirli la dove erano prima e sigillare le loro scatole per non farli più uscire“.
E tutto mi è chiaro: abbracci e sorrisi inutili lasciati andare troppo presto, troppo giovane, per capire se davvero fossero inutili.
Persone, anime, attimi lasciati andare come foglie che cadono, osservandole andare via senza fare nulla o, peggio, soffiando dietro di loro perché andassero più velocemente via e mi lasciassero solo.
Mi sono sempre detto “mi basto da solo“, e in effetti è stato davvero così: mi sono sempre bastato da solo, nelle scelte giuste e nei momenti difficili. Da solo nei momenti in cui avrei voluto avere qualcuno accanto anche solo per gridare un po’ di rabbia o delusione.
Da solo per scelta, solo per scelta.
Poi qualcuno è andato via troppo presto e mi sono trovato, sempre solo, a consumare e digerire questi lunghi addii e a chiedermi: se fossi stato con loro avrei influito al punto di modificare l’esito delle loro esistenze o quanto meno spostarne la direzione un po’ più in là?
Forse no. Il dubbio però resta.
Non ho pentimenti sugli effetti della mia solitudine scelta e imposta a me stesso.
La solitudine come modo per resistere, per crescere, maturare e bastarmi, dopo anni in cui conoscevo a stento il mio nome e chi ci fosse dentro di me.
Altre volte, invece, mi rendo conto che la solitudine per me non è mai stata una fuga da, ma un viaggio verso: verso la solitudine come non-luogo senza alcuno intorno.
Un luogo fisico, non uno stato dell’anima: questa è forse la definizione più adeguata della mia solitudine.
“Dove sono stato in tutti questi anni?”, sempre qui.